Eccoci alla terza domenica di quaresima… e di guerra… Ad aiutarci in questo percorso tortuoso ecco la storia di Mosè, storia radicalmente cambiata da un incontro. Un incontro suggestivo: un angelo di Dio gli parla da un roveto. Un arbusto pieno di spine, di quelli che la parabola del seminatore dice di non essere in grado di dare spazio alla Parola, una realtà spesso secca e pungente come i nostri cuori.
Ecco, di lì parla Dio, lui che sa usare creativamente anche le parti più povere di noi senza ‘consumarle e cambiarle’. E lo chiama per nome: “Mosè, Mosè”. Gli dice di essere un Dio che ha a che fare con la sua storia, di essere il Dio di suo “padre, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, il Dio che lo conosce profondamente come persona e lo sa appartenente a un popolo (cf. Sal 139). Quella voce fa sentire Mosè profondamente amato e riconosciuto nella sua unicità. E poi?
La Fiamma che non si spegne gli racconta di aver visto la sofferenza del suo popolo in Egitto, udito il suo grido, di conoscere nella ‘carne’ le sue sofferenze e di essere “sceso per liberarlo”. E quella voce e quella fiamma sono il segno di questa ‘discesa’, di questa presenza di Dio in mezzo ai suoi. E l’altro segno è il suo invio: “Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!” (Es 3,10). Il nome Mosè significa salvato, Papa Francesco direbbe oggi: ‘misericordiato’, ossia colui che ha vissuto l’esperienza dell’amore di Dio nella sua esistenza.
Bene. Lui ora può restituire quanto vissuto agli altri. Salvato può diventare salvatore. Nulla di strano. Per questo il Salmo responsoriale invita a riconoscere l’amore ricevuto da Dio, di benedirlo e “non dimenticare tutti i suoi benefici”. E così arriviamo al Vangelo. Un vangelo apparentemente difficile o ‘nebuloso’ ma che, se letto alla luce di quanto detto finora, può donarci luce.
Se il Signore conosce le sofferenze del suo popolo e scende per liberarci i fatti di cronaca riportati a Gesù di queste stragi compiute dalla prepotenza di Pilato e dal crollo di una torre non sono affatto il segno di una punizione di Dio su queste persone. Anzi, sono l’appello alla sua discesa. Dio infatti non usa il dolore per ‘dirci delle cose’ o farci cambiare rotta: sarebbe cattivo e sadico. Per cui quelle disgrazie non sono accadute per ‘punire’ quelle vittime ma per causa di una sete di potere di Pilato e per una errata progettazione della struttura. E Dio: vede, piange, soffre, scende, chiama un Mosè a fare la sua parte. Per questo la parabola del fico.
Ora quel Mosè sono i discepoli missionari di Gesù, uomini e donne salvati e misericordiati che possono donare misericordia e libertà agli altri. E se serve zappare un altro pò perché possano accettare l’invito ad andare, Dio ha pazienza, lavora i cuori, li seduce, perché la vita sia donata nella libertà e per amore…
Signore anche oggi davanti a tanta sofferenza restiamo immobili pensando venga dall’alto o ci superi. Tu invece continui ad apparire dentro le nostre storie aggrovigliate, i nostri cuori ancora pungenti e a chiamarci da lì per essere poveri e piccoli strumenti di pace. Accendi il nostro cuore con la tua passione per il mondo e anche noi andremo…
#20marzo2022 #Cmv #Vangelodelladomenica